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PINOCCHIO Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 ottobre 2002
 
di Roberto Benigni, con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, I Fichi d'India, Kim Rossi Stuart, Carlo Giuffré, Franco Javarone (Italia, 2002)
 
C'è una sequenza di PINOCCHIO che mi ha fatto esultare all'idea del capolavoro. Quel capolavoro che una favola dal respiro universale come quella di Collodi, una straordinaria personalità artistica e critica come quella di Roberto Benigni, una commovente e planetaria invocazione al potere dell'Utopia come quella della L A VITA E' BELLA autorizzavano a sperare.

E' all'inizio del film. Con quel pezzo di legno improvvisamente impazzito che si butta a capofitto per le stradine del villaggio toscano. Come animato, all'interno della propria materia inerte, informe, quasi volgare di una vita propria. Un tronco scatenato ed irrispettoso: che fa incespicare i passanti, travolge i carabinieri, rovescia i banconi di frutta e verdura, a balzi sempre più furiosi, coscienti. Prima di appoggiarsi, esausto, come svuotato della propria carica vitale, alla porta della falegnameria di mastro Geppetto.

Un pezzo di cinema esemplare dal punto di vista espressivo: compiuto di vita propria, essenziale, dinamico. Come un disegno animato, schizzato in un lampo d'intuizione sul foglio ancora immacolato dell'immaginazione. Ed è, cosa ancora più importante, un segno assolutamente significativo: l'intuizione di tradurre in linguaggio cinematografico un'idea. Che è poi quella che conta, poiché è alla base dell' universalità del peso quasi filosofico del personaggio; e di un libro che, pare, sia il più letto al mondo dopo la Bibbia ed il Corano.

Di un Pinocchio per i piccini, forse; ma di certo, anche per grandi. Di un burattino sconsiderato e giocoso. Ma pure di quell'essere rinchiuso in una materia greve e qualunque che acquista il piacere di desiderare e di godere, di liberarsi e di sovvertire le regole (della scuola, del lavoro, della sopravvivenza; come dell'invecchiare, del rinsavire), di irritare e di sedurre; di vivere, insomma. Prima di lasciarsi, come si direbbe oggi, omologare: rientrare nell'ordine, nella normalità dei regolamenti, civili e morali.

Diventare un bravo ragazzo: come raccontiamo, infatti, ai lettori bambini. Ma perdendo tutta un'altra serie di valori, quelli che potrebbero interessare, appunto, ad una buona parte dei lettori divenuti adulti: la libertà trasgressiva dello spirito, che ci concede di essere fino in fondo noi stessi, il piacere di attingere pienamente alla propria gioia di vivere. Pinocchio finisce per acquistare le fattezze dei suoi simili. Ma rinunciando all'indicibile, inebriante irrazionalità concessa dal suo corpo di burattino; che gli permetteva di librarsi al di sopra delle colline toscane, di sguazzare fra le onde minacciose del mare come ci fosse nato da sempre. Che gli avrebbe evitato di conoscere i limiti ed i fardelli imposti dalla nostra natura greve ed oziosa; in poche parole, umana.

Non essendo quel burattino, non avendo girato un disegno animato ma un lungometraggio con degli attori in carne ed ossa, Benigni non poteva metterci tutto ciò. Ha fatto allora un film al quale è impossibile negare il rispetto, e forse anche la nostra ammirazione: per l'impegno dell'impresa (addirittura portentosa, all'interno dello squallore offerto dai lazzi, dalle letterine e veline dello spettacolo italiano), per l'amore portato alla propria creatura, per una sorta di devozione che trasuda dal rispetto di seguire passo per passo il racconto, per l'energia comunicativa dell'attore. Ma non ha potuto metterci, il toscanaccio che conosciamo, che il proprio corpo, la propria mimica, la propria parlata. Vivacissimi fino alla frenesia, fino ad una sorta di giovanilismo a tratti quasi patetico di un clown sentimentale. Non quella trasgressione, che era di un pezzo di legno (di un'idea metafisica) fattasi uomo. Non quella rabbia, feroce oltre che esilarante, che pareva accomunare due personaggi così irriverenti da non poter evitare di incontrarsi.

E' un po' come se tutto l'amore che l'autore di LA VITA BELLA conteneva in sé da sempre per Pinocchio, forse anche tutto il peso della responsabilità di aver riversato nella nuova opera i frutti materiali (e l'ipoteca artistica) prodotti dall'inaspettato successo del film precedente, avessero finito per indurlo a frenarsi nei suoi (così fecondi, così irresistibili) eccessi di attore. Per abbandonarsi ad altri eccessi (assai meno compromettenti) di regista.

Ne è nato allora un film rispettoso e colto, nel suo modo di illustrare ognuno dei celebri momenti del romanzo. Un po' buonista, poiché preoccupato di trasmettere gli aspetti edulcorati (ah, quella Fata Turchina monocorde ed invadente…) più che visionari, per non dire gotici, inquietanti o addirittura perversi di una storia di iniziazione. Un film "ben fatto", nelle sue infatuazioni felliniane; con impegnate recitazioni, scenografie (Oscar Danilo Donati), musiche (Nicola Piovani), fotografie (Dante Spinotti), effetti speciali che finiscono però per non sorprenderci più di tanto. Quasi che i magnifici dispetti di Benigni si fossero persi in quel mitico ma così risaputo paese dei balocchi.


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